IL TRIBUNALE MILITARE
    Ha  pronunciato  la  seguente ordinanza nella causa contro Masetti
 Damiano, nato il  9  ottobre  1971  a  Verona,  atto  di  nascita  n.
 3316/p.i.s.a.,  residente a San Giorgio in Salici di Sona (Verona) in
 via Palladio n. 20, celibe, incensurato; soldato effettivo  nel  121º
 reggimento  art.  c/al  in  Mestre  (Venezia);  libero,  imputato  di
 allontanamento  illecito  (art.  147,  primo  comma,  del   c.p.m.p.)
 perche',   soldato   nel  121º  regg.  art.  c/al  in  Mestre,  senza
 autorizzazione si allontanava arbitrariamente dal  reparto  alle  ore
 23,30 del 16 marzo 1991, facendovi spontaneo rientro alla sera del 20
 marzo 1991.
                            FATTO E DIRITTO
    Questo  tribunale  ritiene provato l'allontanamento illecito (art.
 147, primo comma, del c.p.m.p.) attribuito al soldato Masetti Damiano
 per la sua assenza arbitraria dal 16 al 20 marzo 1991.
    Si tratta di reato che, come ogni altro per il quale sia  prevista
 la  pena  della  reclusione  militare non superiore nel massimo a sei
 mesi, non puo' essere punito  se  non  a  seguito  di  richiesta  del
 comandante  (art.  260, secondo comma, del c.p.m.p.), ma nella specie
 la richiesta e' stata presentata (f. 4).
    La norma  dell'art.  260,  secondo  comma,  e'  stata  piu'  volte
 sottoposta   al   vaglio  della  Corte  costituzionale,  manifestando
 tuttavia  un'inusitata  capacita'  di  resistenza.  Con  ben   cinque
 sentenze  (42/1985,  189/1976,  60/1978,  114/1982,  397/1987)  si e'
 stabilito che essa non viola  il  principio  di  uguaglianza,  ne'  i
 diritti  della  persona, ne' i principi della diretta responsabilita'
 penale  del  funzionario,   della   democraticita'   dell'ordinamento
 militare,    dell'imparzialita'   della   pubblica   amministrazione,
 dell'obbligatoriera' dell'azione penale.
    Trovandosi di fronte ad un  reato  punibile  a  richiesta,  questo
 giudice  non  intende  sollevare  ancora  questioni gia' decise dalla
 Corte,  ma  non  puo'  esimersi  dal  manifestare  nuovi   dubbi   di
 legittimita'  che investono non tanto la richiesta di procedimento in
 se' considerata, quanto piuttosto la norma  incriminatrice  dell'art.
 147  del  c.p.m.p.,  dal momento che punisce l'assenza arbitraria, di
 durata superiore ad un giorno ed inferiore a cinque, a condizione che
 questa sia la volonta' del comandante di  corpo,  o  di  altro  "ente
 superiore" da cui dipende il colpevole. La richiesta di procedimento,
 in  altri  termini,  ha una prevalente natura non processuale, bensi'
 sostanziale, e percio' rende dubbia,  sotto  i  profili  che  saranno
 esaminati, la legittimita' della norma incriminatrice.
    E'  noto  che  da  tempo  in  dottrina e giurisprudenza si pone il
 problema se la querela, la  richiesta  e  l'istanza  di  procedimento
 siano   condizione   di   punibilita',   oppure   di   punibilita'  e
 procedibilita', o infine solamente di  procedibilita',  e  che  negli
 ultimi  tempi  si  propende  per  quest'ultima  soluzione.  E  questo
 tribunale non puo' di certo aggiungere nuovi argomenti  di  carattere
 generale  a  quelli,  copiosissimi,  gia' tradizionalmente proposti a
 favore delle varie concezioni. Si deve, tuttavia,  rilevare  come  il
 prevalere   della  tesi  della  condizione  di  procedibilita'  lasci
 piuttosto insoddisfatti, dal momento che  nella  scolorita  categoria
 processuale  i tre cennati istituti vengono ad assimilarsi con quello
 dell'autorizzazione a procedere, e si  dissolvono  le  differenze  di
 origine  e di funzione di querela istanza e richiesta, e la richiesta
 del comandante di corpo, quando non sia addirittura accomunata ad una
 querela, viene a confondersi con la richiesta del  Ministro,  con  la
 quale probabilmente nulla ha in comune se non il nome.
    Limitando  ogni  considerazione  alla  richiesta  del  comandante,
 l'aspetto sostanziale che non puo' essere sottaciuto, e  che  vale  a
 comprendere l'istituto nel novero delle condizioni di punibilita', e'
 la  circostanza  che  il  titolare  del  potere  di  richiesta e' nel
 contempo titolare del potere  disciplinare,  dimodo  che  (come  gia'
 avveniva  per  i  c.d.  sostitutivi  disciplinari  anteriormente alla
 vigente codificazione penalmilitare) la presentazione, o meno,  della
 richiesta  al  competente magistrato e' espressione di una scelta del
 comdandante in ordine alla sanzione, se  disciplinare  o  penale,  da
 irrogare per il fatto previsto dalla legge penale militare.
    Questa   concezione  e'  stata  a  volte  messa  in  dubbio  nella
 considerazione che non vi sia affatto, per i reati  punibili  con  la
 reclusione  militare  non  superiore  a sei mesi, l'asserita scelta e
 alternativita' tra la  sanzione  penale  e  quella  discipinare,  dal
 momento che per fatti del genere il comandante da un lato non sarebbe
 tenuto  ad esercitare l'azione disciplinare nel caso in cui non abbia
 inoltrato la richiesta di procedimento,  e  dall'altro  ben  potrebbe
 promuovere  il  procedimento  disciplinare  (che  verrebbe sospeso in
 attesa  del  giudizio  penale)  anche  nel  caso  di  sua  precedente
 presentazione della richiesta di procedimento penale.
    In  realta',  l'alternativa  tra  sanzione disciplinare e sanzione
 penale trae fondamento da una consolidata prassi gia' esistente sotto
 la vigenza della normativa anteriore alla codificazione del 1941;  ma
 attualmente  sembra  trovare  riscontro  anche nelle disposizioni del
 d.P.R. 18 luglio 1986, n. 545, (Regolamento di disciplina  militare),
 che dettano norme per l'esercizio dei poteri attribuiti al comandante
 dagli  artt.  13  e  15 della legge 11 luglio 1978, n. 382, (Norme di
 principio,  sulla  disciplina  militare).  Innanzitutto,  l'art.  58,
 settimo   comma,   del   testo   regolamentare  stabilisce  l'obbligo
 dell'esercizio  dell'azione  disciplinare  nel  caso  di   infrazioni
 punibili  con  la consegna di rigore, categoria che comprende i reati
 in genere, inclusi quelli punibili con  la  reclusione  militare  non
 superiore nel massimo a sei mesi (art. 65, settimo comma, e preambolo
 dell'allegato  C  al  citato d.P.R.). Inoltre, come pure stabiliscono
 l'art. 65, settimo comma ed il preambolo dell'allegato C, la sanzione
 disciplinare per i reati punibili  con  la  reclusione  militare  non
 superiore  a  sei  mesi  e' irrogabile solo quando il comandante "non
 ritenga di chiedere il procedimento", e percio' esclusivamente  quale
 alternativa alla sanzione penale.
    Di  modo  che,  volendo  abbozzare  talune  linee fondamentali del
 potere disciplinare del comandante, risulta che l'azione  disciplinre
 puo', o in certi casi deve, essere esercitata per ogni fatto che, non
 rientrando   nella   previsione  di  alcuna  norma  penale  militare,
 costituisca tuttavia violazione  dei  doveri  del  servizio  o  della
 disciplina  militare;  che  l'azione disciplinare e' invece sempre da
 esercitare per le violazioni dei  doveri  medesimi  che  siano  anche
 previste  come  reato  perseguibile d'ufficio; che tra le due catorie
 estreme v'e' una fascia intermedia  costituita  dalle  infrazioni  ai
 detti  doveri  che nel contempo integrino la materialita' di un reato
 punibile con la reclusione militare non superiore nel massimo  a  sei
 mesi,  e  che  in  quest'ultimo caso, in cui l'azione disciplinare e'
 esperibile solamente quando non sia stata inoltrata al magistrato  la
 richiesta  di  procedimento,  al  comandante  e' conferito proprio il
 potere di stabilire se per l'infrazione posta in essere dal  militare
 sia adeguata la sanzione penale oppure quella disciplinare.
    Del  resto, che la richiesta di procedimento operi innanzitutto in
 un ambito di diritto sostanziale e' concezione pacificamente  accolta
 nella  dottrina  meno  recente anteriore ed immediatamente successiva
 all'ultimo conflitto mondiale, nella quale si  afferma  che  (proprio
 perche'  in  difetto  della  richiesta  il  fatto  e' privo di penale
 rilevanza) per il reato punibile a  richiesta  non  v'e'  obbligo  di
 rapporto  giudiziario da parte del comandante, sin quando egli non si
 sia  eventualmente  indotto  a  chiedere  il   procedimento   penale.
 Quest'idea e' senza difficolta' accolta nella giurisprudenza, nel cui
 ambito,  sempre  in  linea  con  la  concezione  sostanzialistica, si
 rinviene, quale particolare applicazione del principio  la  decisione
 secondo  cui  non e' punibile come ricettazione l'acquisto di oggetti
 provenienti da reato  militare  per  il  quale  non  puo'  procedersi
 poiche'  manca la richiesta del comandante del corpo (cass. sez. III,
 25 ottobre 1954, in Foro pen. 1955, 516).
    Rispetto  a  quest'originario  ordine  di   idee   la   successiva
 relegazione della richiesta di procedimento nel novero nelle norme di
 diritto  processuale non e' che un'astratta operazione dottrinale, un
 tentativo di esorcizzazione dell'istituto, che di certo non fa  venir
 meno ed anzi rimuove il dato essenziale: che il comandante sceglie il
 tipo  di  sanzione,  penale  ovvero  disciplinare, da irrogare per il
 fatto previsto quale reato.
    Altri elementi confermano che la richiesta  di  procedimento  deve
 considerarsi  una condizione di puniblita'; innanzitutto il fatto che
 l'art. 260 sia collocato nell'ambito del  libro  secondo  "Dei  reati
 militari"  e  rimanga estraneo al libro terzo "Della procedura penale
 militare".
    Ma ancor piu' significativo  e'  che  la  disposizione  stessa  (a
 differenza di quanto avviene per autorizzazione e procedere, querela,
 istanza  e  richiesta  del  Ministro)  non  riguardi  reati  indicati
 singolarmente o per l'appartenenza ad una determinata categoria,  ne'
 i  reati  in genere commessi in determinate circostanze o da determi-
 nate persone, bensi' indistintamente tutti i reati militari,  nessuno
 escluso, punibili con la reclusione militare nella misura suindicata,
 a   nulla   rilevando  il  bene  giuridico  tutelato,  o  particolari
 qualifiche del  colpevole,  o  le  circostanze  della  realizzazione:
 quest'individuazione  dei  reati  punibili a richiesta esclusivamente
 per il tramite della quantita' della pena comminata  per  i  medesimi
 dalla  legge  sta  a  segnalare  che  ci  si trova nel contesto della
 punibilita'. E la conclusione si rafforza  nella  considerazione  che
 l'art.  260  si  riferisce a tutti indistintamente i piu' lievi tra i
 reati militari, ai fatti bagattellari.
    Si  direbbe  con  moderna  terminologia,  rispetto  ai  quali   e'
 ragionevole    pensare    che   il   legislatore,   senza   eccessive
 preoccupazioni dogmatiche, abbia avvertito l'esigenza di evitare  una
 penalizzazione incondizionata.
    Chiarita, dunque, la natura sostanziale del potere del comandante,
 risulta  evidente che con quest'istituto si e' delegata all'autorita'
 militare una decisione che il principio costituzionale dell'art.  25,
 secondo comma, riserva in modo assoluto alla legge.
    La    rilevata   inadeguatezza   nei   confronti   del   principio
 costituzionale di legalita' non comporta, tuttavia, che debba  essere
 sollevata questione di legittimita' incentrata sulla disposizione che
 prevede  la  richiesta  di  procedimento,  dal momento che con la sua
 caducazione  si  avrebbe  il  risultato,  ancora  in contrasto con il
 principio costituzionale, che la  norma  incriminatrice  acquisirebbe
 un'incondizionata  applicabilita',  che  il  legislatore  non  ha mai
 inteso  disporre.  La  questione  di   legittimita'   deve,   invece,
 appuntarsi  sulla  norma  dell'art. 147 del c.p.m.p., perche', con il
 suo collegamento all'art. 260, delega al comandante la penalizzazione
 dell'assenza arbitraria di durata superiore ad un giorno ed inferiore
 a cinque, e non  possiede  pertanto  i  requisiti  che  il  principio
 costituzionale richiede per una norma incriminatrice.
    Come  ha  bene  messo in rilievo una dottrina non recente, ma gia'
 sensibile alle garanzie costituzionali,  la  discrezionalita'  insita
 nella  richiesta  di  procedimento  per  il  reato  di allontanamento
 illecito  costituisce,  inoltre,  un  camouflage  di   un'altrettanto
 inammissibile discrezionalita': quella prevista nei codici previgenti
 e nel vigente codice penale militare di guerra (art. 155), per cui il
 militare  arbitrariamente  assente  dal  servizio puo', sulla base di
 "particolari  circostanze"  liberamente  valutabili  dal  comandante,
 essere  dallo  stesso "dichiarato" disertore o mancante alla chiamata
 prima che l'assenza abbia raggiunto la durata, due giorni, occorrente
 per il perfezionamento del reato (artt. 145, 146, n. 2, 151).
    Pertanto, lo stesso allontanamento illecito configurato  dall'art.
 147   del   c.p.m.p.   non   e'   che   una   diserzione  (art.  148)
 discrezionalmente  valutata   ed   anticipatamente   dichiarata   dal
 comandante,  in  evidente  spregio  del  principio  costituzionale di
 legalita'. Viene con cio' ribadita  l'illegittimita'  dell'art.  147,
 che  si  rivela  anche  piu'  radicale  di  quanto non lasci supporre
 l'analisi  sin  qui  svolta  sulla  disposizione  dell'art.  260.  La
 richiesta di procedimento riferita al fatto di assenza arbitraria non
 solo non e' una mera condizione di procedibilita', ma anche un quanto
 condizione   sostanziale   di   punibilita'   diviene   la   sommita'
 dell'iceberg,     l'aspetto     terminale     ed     emergente     di
 un'incostituzionalita'   che   muove  dal  cuore  stesso  del  reato,
 l'antigiuridicita' valutata e dichiarata  dal  comandante,  piuttosto
 che risultante da una norma di legge.
    Ma,  anche prescindendo dall'ambito dei principi costituzionali in
 materia  penale,  non  e'  meno  evidente   che   la   stessa   norma
 incriminatrice  dell'art. 147, per quel suo collegamento all'istituto
 dell'art. 260, e per il potere di penalizzazine che ne deriva in capo
 al  comandante  militare,  concorre   a   determnare   un'illegittima
 limitazione dei diritti fondamentali della persona (artt. 2 e 3 della
 Costituzione),  che  nell'ordinamento  militare non hanno meno valore
 che  nell'ordinamento  generale  (art.   52,   terzo   comma,   della
 Costituzione).
    Sotto  questo profilo, non si comprende anzi quale senso abbia che
 con la citata legge n. 382/1978 e poi con il d.P.R.  n.  545/1986  si
 limitino  e  si  disciplinino  i poteri che al comandante spettano in
 vista del perseguimento dei compiti d'istituto delle forze  armate  e
 per l'attuazione della normativa disciplinare, qualora poi si dovesse
 ammettere  come  legittimo  che in capo allo stesso vi sia un potere,
 quale quello di penalizzare i  fatti  lesivi  del  servizio  e  della
 disciplina militare, che la Costituzione riserva in maniera esclusiva
 al legislatore.
    Questo  tribunale,  in  definitiva,  ritiene  di  dover  sollevare
 questione di legittimita' costituzionale dell'art. 147, del c.p.m.p.,
 in riferimento all'art. 260 del c.p.m.p., in relazione agli artt.  2,
 13, 25, secondo comma, e 52, terzo comma, della Costituzione.